Pierantonio Tanzola                                       

                                                                 

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Fotografie

Omissis  -  Testi  in catalogo                                

 

 

La terra è lì,

per raccoglierne il sangue

di Marco Mancassola

 

Da ragazzino, dopo certi eventi, dopo qualche lite, dopo qualche delusione, dopo che il mondo mi aveva in qualche modo preso a schiaffi e deriso, uscivo di casa e iniziavo a camminare. Nei campi. Abitavo in campagna e l’unico spazio dove cercare consolazione, e un po’ di respiro, era quello misterioso e indifferente dei campi. Gli alberi, i fossati, le distese di terra appena arata non avevano, in realtà, niente di preciso da dirmi (i libri, la musica, i sogni pop, o anche i discorsi politici, accendevano molto di più la mia immaginazione), ma sembravano comunicare con qualche piano profondo, arcano, quasi genetico della mia percezione. I campi d’inverno, soprattutto, col loro vuoto polare, mi facevano sentire ignorato ed eroicamente solo, proprio come desideravo sentirmi, e al tempo stesso compreso in qualcosa di antico. Una specie di malinconia primordiale. Essere lì era inutile, eppure naturale.

Forse, per ognuno di noi, c’è un paesaggio a cui è inutile eppure naturale guardare, quando il mondo ci colpisce con fatti più o meno intimi, più o meno ‘storici’. Quando apprendiamo ad esempio che un certo personaggio è morto, o che un’altra strage è compiuta, o che i fascisti hanno ucciso un poeta.

La galleria di fatti di importanza storica (ma dotati di ‘risonanza intima’) evocati da Pierantonio Tanzola acquista qualcosa di ancora più doloroso, e ambiguo, nel confronto con quel paesaggio. Quel suo paesaggio arcano, naturale, colmo di una specie di calma crudele. Uno zen della pianura. La strana dislocazione spazio-temporale messa in scena da queste figure (fatti storici a confronto con immagini senza storia) può lasciare indifferenti, o accendere intuizioni senza nome. Proprio come una campagna d’inverno. Proprio come una passeggiata nei campi freddi, quando si è piccoli e feriti, e non c’è niente da ascoltare, niente da imparare, tranne quel senso di naturalità. Ciò che accade è naturale. Se il mondo muore, è naturale.

A una certa età andai via dalla campagna, perché ero convinto che il mondo, o per lo meno la mia vita, si potessero cambiare. Ero entrato, a qualche livello, in una dimensione di consapevolezza politica. Difficile avere idee politiche e vivere in campagna: la campagna è impolitica. La sua eternità è impolitica. La campagna non crede ai cambiamenti del mondo, e nemmeno delle persone. Vi assiste magari con dolore, ma sostanziale scetticismo.

Quando mi capita di tornare a confrontarmi con quel paesaggio, sento molte mie convinzioni traballare. Per avere una percezione della ‘fine della Storia’ non serve frequentare intellettuali postmoderni o leggere libri di Fukuyama. Basta guardare una campagna. Non a caso, in zone come quella dove sono nato, la gente tende a trasformarla e a seppellirla, la campagna rimasta, sotto uno strato di cemento,  capannoni industriali, aree abitative, ipermercati, sexy shop, concessionarie d’auto. Come qualcuno che addobba, nascondendola, la superficie di un’imbarazzante verità.

Certe cose non cambiano e forse non cambieranno. I fascisti lo uccidono ogni giorno, sulla Terra, un poeta. La terra è lì, per raccoglierne il sangue.

 

 

Quadro - foglio

di Fulvio Panzeri

 

L’etica della Storia è la memoria. Non è possibile dimenticare, perché ogni morte ha un senso e la violenza ne amplifica l’atto e il simbolo di pugnale centrato non solo contro la Repubblica, ma al cuore di chi è veramente la Repubblica, ovvero noi. La Bandiera che cola.

Mi chiamo lontano dalla Storia, vivo in questo presente di lutto e di mancanza di realtà. Vivo da poeta che non trova più la parola necessaria a cui dare la forma convenzionale di poesia, in questa invettiva contro la civiltà che muore, contro l’agonia del nostro essere coscienza civile. Tutto questo non ha più date nel mio pensiero di oggi. Sfuggono, proprio a me, che ricordo solo per date, in una memoria scandita dalla precisione degli anni.

 Chi mi ha rubato questo calendario mentale? E perché sono andate in fumo le cronologie anche indefinite di certi oscuri presagi?

 Scopro che forse tutto è ancora e solo dentro, forma dell’anima, presa a reazione di quella civile virulenza che mi chiede fermezza, nessuna concessione all’indulgenza, se non la pietà unica verso la vittima, qualunque e ogni vittima.
Però le date raccontano la sequela dell’inganno e non posso chiamarmi fuori dall’etica della Storia, quella depistata, priva di senso, in un territorio non di nostra pertinenza. Devo ritrovarle, le date, per descrivere i giorni neri, la morte che incombe e non può essere lasciata solo all’emozione.

 Fibra: ricerco ancora la sua essenza, per avere un valore nell’innocenza cristiana.

 Tu hai percorso l’intera strada fino a cogliere di una ferita non solo bruciore, ma la forma larga delle anime morte, quelle che il sangue e la folgore dello scoppio lasciano a un’apparenza di penitenza.

 Ho ritrovato le date su questa cronologia di foto, deprivate dal segno della retorica, redente in quella natura d’ossa che la pittura vi imbriglia o esplora, corrode. Fotografia che ripara la cura insidiosa del tempo, l’allontana per ripresentare il buco nero della malattia, la perversione dell’abisso accerchiato e vinto come su un campo di battaglia, l’etica di una Storia in cui la Bandiera stinge e accolora il suo sangue vegetale.

 Sfoglio questo libro immaginario in cui tutto è macerato: la fotografia nella  pittura, la Storia nella sua  etica, la morte nella natura. Resta un’ombra scheletrica in ogni quadro-foglio, l’essenza di una sconfitta, anche quando la data resta muta all’emozione, gli anni bruciati, le date mancanti.

 Se questa della sola essenza è l’unica mira allora è necessario dare un taglio. Leggo questo nelle foto. Brucio ancora le date nella memoria. La parola cerco, quella che mi s’intaglia e non fatica. Ritorna, imperiosa, qui, dal silenzio della terra senza voce.


 

La Recherche di Tanzola

di Alcìde Pierantozzi

 

Ciò che è morto una volta è morto per sempre, scriveva Proust. E poco più tardi, leggendo la Recherche, di fronte ai consueti quesiti su cosa nascondesse quell’opera straordinaria – filosofia? memoria? tempo, semplicemente, smarrito? – Nabocov avrebbe detto che si trattava di una caccia al tesoro dove il tesoro era il tempo, e il nascondiglio il passato. Comincio con Proust perché vedere i lavori di Pierantonio Tanzola è come celebrare tanti milioni di minuti messi assieme, come affrontare un tempo ellittico e diluito che porta con sé un grosso dilemma di carattere esoterico-semantico: parliamo di ricordo oppure di oblio,  di dimenticanza? Non voglio fare un’analisi troppo specialistica di questi quadri, perché questi quadri vanno esplorati come si esplorerebbe una campagna innevata o un odore acre di tomba, vanno vissuti concedendoli a se stessi come una musica travestita da sacrificio, che Sconvolge e assolve insieme.
Pierantonio ritrae i luoghi del tempo perduto e poi ci infila qualche sputo di luce fortissima, forme quasi non di questo mondo che racchiudono in sé qualcosa che non si può dire, un abisso agnostico e indefinibile. Una sembianza che è morta per sempre o che, forse, non è mai nata restando come fuori di un cerchio di luce simbolica: tutto rimane incomprensibile eppure profondamente familiare, tutto si macchia di angoscia e meraviglia, l’angoscia dell’esistenzialismo, l’angoscia che sorge dall’impossibilità di capire quello che ci circonda.

Senza voler entrare nello specifico di queste opere, voglio lasciarmi andare un po’, osservarle sul monitor e buttare giù quello che sento, elencare le parole che mi vengono alla mente: ombra, arancio, battaglia, ramo, terra, meteora, pacchetto, uva, età, pace, morte, abisso, sentenza, cranio, nascondimento, sorte, dolore, sonno, uomo, prova, abbaglio, lamento, scandalo, sfogo, bianco, chiodo, amore, tristezza, storia, arazzo, uva, luogo, spazio, silenzio, agio, autunno, sacro, donna, bocca… Questi i termini che per la mia sensibilità, in definitiva, racchiudono l’opera di Tanzola. E certamente potrei elencare le cause di questa arte, potrei trattare la coscienza umanistica e civile che si trincera, palpabilissima, dietro ogni immagine, e dire così del ruolo contemporaneo dell’artista nella società e fare una sorta di biografia di una vocazione. Ma a che servirebbe?

Amo l’arte, amo l’impressionismo e la metafisica, ho poi studiato a lungo Picasso e Munch, che mi sono serviti anche per la scrittura e sono rimasto incantato subito di fronte al taglio compositivo, del tutto inconsueto, dei dipinti di Tanzola. Mi riferivo a una specifica coscienza, pocanzi… perché Pierantonio, nel suo studio padovano, tiene numerosi testi filosofici, tiene la poesia migliore, tiene della musica introvabile; quindi non ho conosciuto un artista che fa a botte con la tela ma un uomo che con la tela ci parla, gli racconta qualcosa, a volte la scavalca come si può scavalcare un muro per lasciare alla tempera una specie di nuovo corso solitario, un deserto senza l’acqua del poeta: quello che acquisisce, pretende l’opera non appena è stata creata, per adeguarsi ai tempi e studiarli, esaminarli, combatterli  pur se dall’ottica della sua inedita originalità.

Quando leggevo Proust non sentivo il ricordo, sentivo invece l’oblio, il “non ritrovato”, una specie di nascondiglio perso. Perché? Perché dimenticato a forza, evidentemente. È un po’ quello che si prova davanti a questi quadri splendidi, nordici, vagamente veneziani, di rimando realistico. Che si rifanno a una specie di lontana e nascosta iconografia panistica: quella dell’uomo che, mentre la Storia universale corre verso un punto preciso e discosto, se ne sta da solo, in disparte, ad abbracciare la natura dall’interno di quel cerchio di luce che porta il nome della speranza. Una conversazione sacra, questi dipinti, circoscritta da un recinto mortale, tradizionale e nudo.

 

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