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Quando incontrai per la prima volta Pierantonio Tanzola ebbi la sensazione di conoscerlo di persona da molto tempo, probabilmente da sempre. Le nostre prime parole furono immediatamente istintive e sincere, legate alla conflittualità del nostro essere e sentirsi veneti, ritrovandoci subito nella condivisione di idee riconducibili al forte, ineluttabile richiamo che la natura e il paesaggio rurale del nostro territorio esercitano e rivendicano da sempre nei nostri rispettivi lavori. In lui notai uno sguardo empatico, costantemente attento e curioso, in grado di intuire, percolare e attraversare intellettualmente e artisticamente il suo interlocutore. Lasciammo che la conversazione si muovesse liberamente e finimmo per interrogarci sui possibili concetti e significati della parola Radici. Ci ritrovammo così, all'interno del suo studio-atelier, a parlare come farebbero due vecchi compari, con la differenza che lui e io ci conoscevamo da pochi minuti appena. Discutemmo di letteratura, di scrittori, di scritture, di arte. E di fotografia, naturalmente. Io presi alcuni libri da uno scaffale della sua libreria, tra questi scelsi “Luoghi e Paesaggi” di Zanzotto e ne lessi alcuni passi ad alta voce. Fu presto chiaro a entrambi che avremmo dovuto fare le mie foto all'aperto, tra i campi, non dovemmo nemmeno dircelo. Bastò uscire e andare poco lontano, inoltrandoci in una mareggiana aspra e intricata posta a ridosso di un argine della Brentella. L'occhio di Tanzola, sempre vivido e rigoglioso, in quell'ambiente naturale sembrò vedere cose che nessun altro avrebbe potuto scorgere. Perché quello era il suo ambiente. Vibrazioni ancestrali? Ectoplasmi? Esseri immaginari? Confini metafisici? Lì, in quel luogo selvatico, mentre continuavamo a confrontarci, come direbbe Milan Kundera, “immersi nello stesso fiume semantico”, lui cominciò a immortalare pose e situazioni spostandosi da una radice di robinia all'altra, da un ramo di salice all'altro, nascondendosi ora dietro una fronda di pioppo, ora di un'acacia. E mentre scattava, capivo che stava realizzando molto più e molto altro che delle semplici fotografie. Senza alcun indugio o titubanza infatti egli stava letteralmente aspirando la cifra più intima della mia poetica. Per trasfigurarla nella sua arte.
Matteo Righetto, 2016 (dal catalogo "Visi d'arte", Palazzo della Ragione, Padova 2016)
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