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LA RECHERCHE DI PIERANTONIO TANZOLA
Ciò che è morto una volta è morto per sempre, scriveva Proust. E poco più tardi, leggendo la Recherche, di fronte ai consueti quesiti su cosa nascondesse quell’opera straordinaria – filosofia? memoria? tempo, semplicemente, smarrito? – Nabocov avrebbe detto che si trattava di una caccia al tesoro dove il tesoro era il tempo, e il nascondiglio il passato.
Comincio con Proust perché vedere i lavori di Pierantonio Tanzola è come
celebrare tanti milioni di minuti messi assieme, come affrontare un tempo
ellittico e diluito che porta con sé un grosso dilemma di carattere
esoterico-semantico: parliamo di ricordo oppure di oblio, di dimenticanza? Non
voglio fare un’analisi troppo specialistica di questi quadri, perché questi
quadri vanno esplorati come si esplorerebbe una campagna innevata o un odore
acre di tomba, vanno vissuti concedendoli a se stessi come una musica travestita
da sacrificio, che sconvolge e assolve insieme. Senza voler entrare nello specifico di queste opere, voglio lasciarmi andare un po’, osservarle sul monitor e buttare giù quello che sento, elencare le parole che mi vengono alla mente: ombra, arancio, battaglia, ramo, terra, meteora, pacchetto, uva, età, pace, morte, abisso, sentenza, cranio, nascondimento, sorte, dolore, sonno, uomo, prova, abbaglio, lamento, scandalo, sfogo, bianco, chiodo, amore, tristezza, storia, arazzo, uva, luogo, spazio, silenzio, agio, autunno, sacro, donna, bocca… Questi i termini che per la mia sensibilità, in definitiva, racchiudono l’opera di Tanzola. E certamente potrei elencare le cause di questa arte, potrei trattare la coscienza umanistica e civile che si trincera, palpabilissima, dietro ogni immagine, e dire così del ruolo contemporaneo dell’artista nella società e fare una sorta di biografia di una vocazione. Ma a che servirebbe? Amo l’arte, amo l’impressionismo e la metafisica, ho poi studiato a lungo Picasso e Munch, che mi sono serviti anche per la scrittura e sono rimasto incantato subito di fronte al taglio compositivo, del tutto inconsueto, dei dipinti di Tanzola. Mi riferivo a una specifica coscienza, pocanzi… perché Pierantonio, nel suo studio padovano, tiene numerosi testi filosofici, tiene la poesia migliore, tiene della musica introvabile; quindi non ho conosciuto un artista che fa a botte con la tela ma un uomo che con la tela ci parla, gli racconta qualcosa, a volte la scavalca come si può scavalcare un muro per lasciare alla tempera una specie di nuovo corso solitario, un deserto senza l’acqua del poeta: quello che acquisisce, pretende l’opera non appena è stata creata, per adeguarsi ai tempi e studiarli, esaminarli, combatterli pur se dall’ottica della sua inedita originalità. Quando leggevo Proust non sentivo il ricordo, sentivo invece l’oblio, il “non ritrovato”, una specie di nascondiglio perso. Perché? Perché dimenticato a forza, evidentemente. È un po’ quello che si prova davanti a questi quadri splendidi, nordici, vagamente veneziani, di rimando realistico. Che si rifanno a una specie di lontana e nascosta iconografia panistica: quella dell’uomo che, mentre la Storia universale corre verso un punto preciso e discosto, se ne sta da solo, in disparte, ad abbracciare la natura dall’interno di quel cerchio di luce che porta il nome della speranza. Una conversazione sacra, questi dipinti, circoscritta da un recinto mortale, tradizionale e nudo.
Alcide Pierantozzi (dal catalogo "Omissis" Centro Nazionale di Fotografia, Padova 2006)
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