PIERANTONIO TANZOLA                                       

                                            

               

    

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TANZOLA E LA FIRMA DI DIO

 

FLAVIO ARENSI

 

Nevica. È marzo; il 3, compie gli anni mio zio Alfredo. Nevica, e la neve mi affonda dentro. Che poi bastano dieci centimetri per mettere in crisi il traffico e riportarci al tempo dei silenzi migliori. Piove. Ma solo un poco. Il balcone è bianco, bollato da piccoli crateri, pustole d’acqua che ritmano la fine di una giornata grigia, e dei suoi orizzonti senza dimensione. Si può vivere anche così, guardando un panorama appoggiato al nostro naso, decidere di restare fissi ad osservarsi, sentendo una ad una le piccole collusioni fra la goccia d’acqua e lo strato di neve. Nevischio. Ieri notte recitavo un mantra che non ricordo; partiva da lontano, dal corridoio della mia casa di Seregno, alla stregua di un fantasma che in questi giorni torna a farmi paura e dirmi che non se ne è andato. Torna e mi fa ghiacciare, come la mia cabriolet al mattino, troppo presto per scappottare, troppo tardi per cambiarla. Basterebbe attendere i giorni più miti, con la nostalgia che lasceranno i giorni di neve. La pioggia no, perché arriva persino in estate… in autunno… in primavera. Quando il ritmo del mantra sale dileguano le ansie dell’esistenza. In autostrada, di ritorno da Salò, ho pensato di schiantarmi contro il baule di una Thema grigia (sono anni che non ne vedevo più di questi modelli) per poterlo raccontare a tre persone: ad Ettore Greco per il mio monumento funebre come al Gattamelata, Marco Mancassola ci scriverebbe un racconto, con calma, e non è detto. Ed a te, Pier, perché sapresti riderci.. Cosa si prova a morire, in quell’attimo che ognuno sfiora più volte nella vita? Vita, appunto. Qui si nasce e muore senza attenzione, senza attimi di pause: si muore tanto più innumerevoli quanti nasciamo. Morire in molti non è plausibile, cambierebbe nulla. Ma quell’attimo, cazzo, quell’attimo che prima sei vivo e dopo sei morto, com’è? Non mi interessa sapere se di là ci sono gli angeli o quel debosciato di Dante Alighieri a prendermi per mano; voglio mi si dica quando si è lì lì per andare, per crepare insomma, cosa si prova? Basterebbe attendere i giorni più miti della vecchiaia, con la nostalgia che lasceranno i giorni presenti. Nevica davvero, insieme piove, mica me lo invento. Stamattina cadeva in orizzontale, e forse il cielo si era girato di novanta gradi, così saranno pure cadute le gerarchie celesti, o almeno piegate, per starci più vicine. Ne avremmo bisogno. In effetti, cambia nulla. Le gocce lasciano ferite che se non ci pensi non le vedi. Soprattutto senza occhiali la realtà è più opaca. Quale realtà? Se esiste! Dannato di un Pierantonio Tanzola (pronuncio Pierantonio tutto d’un fiato), mi fai vedere una donna che muore, ed evochi l’immagine della mia bisnonna. Un tempo andai dal notaio per un atto che neppure interessa, firmai di fretta, arzigogolato come sempre: Flavo Arensi, nel modo in cui la firma sembra dirti che esisto, e me lo ricorda, almeno in quel mentre. Mi chiese di firmare in maniera leggibile F l a v i o A r e n s i. forse esisto meglio scandendo le sillabe. Questa tua moribonda, questa tua morte è davvero la firma di Dio? Firmasse a chiare lettere almeno lo afferrerei. Siamo fatti per vivere, non per morire. Non è poco. Magari non è la sua firma, soltanto una sigla. Glielo chiedo, la prossima volta, di firmare più leggibile. Glielo chiederò sicuro: basterebbe attendere i giorni più miti del paradiso, con la nostalgia che lasceranno i nostri giorni di neve. E anche la pioggia.  Persino la pioggia.

Seregno, 03/04/2005

 

Flavio Arensi 2005                               

(dal catalogo "Tanzola - Tempus Manet",

Galleria Nuovospazio, Piacenza 2005)

 

 

 

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Ci resteranno questi momenti, caro Pierantonio.

Di noi che muoviamo tra i personaggi del nostro immaginario intellettuale, quelli ancora vivi, perché di altri ci ricordiamo a tavola, quando si mangia. Sono tutti vanitosi, noi più di loro, mentre li osserviamo come ospiti colmi di premure, distogliendoli dal mettersi in posa.

Tu scatti, e mi guardi quando hai bisogno di distrarli, di farli spostare in un’altra stanza, o spronarli affinché gesticolino, o fumino per riempire l’aria di onde bianche, anzi cilestri, direbbe Proust.

Ma che tutto sia naturale! Come la nostra amicizia, che è nata a distanza, o come i gelsi sulle rive dei vecchi canali, che servono a dare un poco d’ombra e toglierci di dosso la nostra malinconia.

Lì deponiamo i nostri momenti comuni.

E i tuoi incontri sono anche i miei.

 

Flavio Arensi, Padova 9 agosto 2012

(dal catalogo "Visi d'arte",

Palazzo della Ragione, Padova 2016)

 

 

 

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Era d’estate, tanto tempo fa

Ho conosciuto il lavoro di Pierantonio Tanzola prima di conoscere lui. Recensii per un settimanale la mostra alla Galleria Forni di Milano, era l’anno che anticipava il nuovo millennio, avevo 23 anni. Ci siamo trovati qualche mese più tardi. Ero stato a trovare Ettore Greco nel suo studio di Padova e vidi, fra i suoi casini ammonticchiati sulle mensole, un ritratto scattato da Pierantonio. Mi disse che era del suo amico Piero.

La prima volta nella sua casa di campagna, che ne incornicia lo studio, l’abbiamo passata divertendoci. Lì, poi, sono arrivate le cene con Ettore che ci parlava di Rodin e di Parigi, Marco Mancassola – che dopo qualche anno mi raggiunse in Messico per visitare il deserto; stava scrivendo la La vita erotica dei supereroi e aveva in mente un personaggio messicano, ma da quel soggiorno nacque anche l’idea del viaggio che più tardi sottende la trama de Gli amici del deserto. Sono anche i momenti formativi dei primi libri di Mattia Signorini, che aveva un ottimismo e una sicurezza ammirevole, e tanta dolcezza; Gabriele Dadati, che è di Piacenza, ma bazzicava anche lui insieme agli altri artisti padovani l’atelier di Pierantonio. Avevamo un menù prestabilito e preferenziale, pasta al tonno, vino, la musica e le discussioni che oggi rimpiango, perché talvolta ci si sente soli. Capitava di incrociarne i genitori: il padre – oggi - mi pare fosse un grande vecchio, lo associo al profilo di Andrea Camilleri, elegante ed educato, compiaciuto di stare fra noi più giovani, come succede spesso a chi ha esperienza tuttavia ascolta chi non ne ha, benevolmente. Negli anni, con Pierantonio, abbiamo incontrato diversi autori, passioni comuni o piccole curiosità, Antonio Moresco a Milano, Antonio Lopez Garcia a Madrid – mangiando il torrone che ci offriva, Mimmo Paladino, Kiki Smith ad Alba – con mia moglie Andreea incinta di Emma, Gianni Berengo Gardin, nella sua soffitta, Daniele Galliani, Giordano Bruno Guerri, negli anni belli al Vittoriale, Pan Nalin – questo regista straordinario del film Samsara, Marc Quinn a Londra e alcuni giovani artisti milanesi che avevo presentato a Legnano.

Un incontro è stato incontro più di altri, quello con Carol Rama, di cui stavo ordinando una mostra e che ormai era pressoché inaccessibile. Siamo stati a trovarla a Torino, col rispetto che si deve alle persone anziane, soprattutto folli, di quella follia sacra che rende squarci di esistenza e te li butta addosso seppur impreparato a riceverli. Si parlava, nei frammenti di lucidità (nostra più che sua), e poi si girava nella casa, maltenuta, con una piccola cucina piena di fotografie, davanti alle quale Pierantonio mi fece un ritratto. Carol mi chiese di che mi occupassi nella vita. Risposi che organizzo mostre e lei aggiunse un lapidario «è già qualcosa», che forse è più di quanto uno possa immaginare sia davvero. E Franco Piavoli, che spiega meglio di tutti gli altri cosa siamo Pierantonio e io, cosa guardiamo nel mondo, nei gelsi tagliati in riva al fiume e ai canali. Io nella Bassa lodigiana quando ero ragazzo, lui a Padova.

Ricordo che la monografica alla Forni s’incentrava sulle metropoli, le strade di New York, i passaggi e le persone. Era il 1999, e anch’io in quel momento avevo altri modelli o pretese; infine entrambi si è girato lo sguardo su quello che abbiamo nel cuore. E il cuore, qualche anno fa ha sobbalzato per l’arrivo della mia Emma. La sua prima fotografia la fece Pierantonio, una maternità dolce, con mia moglie accovacciata mentre allatta nel suo giardino - sotto a una pianta - bellissima e luminosa. Che di tutto quello che si può avere, davvero di ogni singolo bene o vantaggio si possa trovare in questa vita, alla fine dalla terra veniamo e alla terra andiamo; nel mezzo c’è solo quello che capita quando si vuol bene a qualcuno. Un po’ come quando ascoltavamo insieme Era d’estate a casa di Pierantonio, ed entrambi se ne usciva con gli occhi un po’ lucidi, però poi si tornava a ridere degli argomenti più scemi, chiosando con una frase dei bei tempi passati. Sono passati davvero Pierantonio, e tanti ne passeranno.

© Flavio Arensi, 2018

 

Flavio Arensi

(dal catalogo "Tanzola_Tradimenti",

Museo Torre Civica, Medole (MN) )

 

 

 

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