PIERANTONIO TANZOLA                                       

                                            

               

    

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L'ARGINE n° 5

agosto 2023 - dicembre 2023
 

In questo numero abbiamo l’editoriale di Marco Fazzini, anglista e docente di letteratura post-coloniale presso l’università Ca’ Foscari di Venezia, che ci spiegherà il difficile ruolo e la condizione di marginalità che ha la poesia nel mondo contemporaneo. Possiamo leggere poi il dialogo tra Lorenzo Renzi, professore di filologia romanza presso l’università di Padova e Accademico Emerito dell’Accademia della Crusca, e Pierantonio Tanzola. Una conversazione che ci narra del percorso personale e intellettuale di Renzi attraverso le sue passioni, i suoi incontri e il rapportarsi quotidiano con i giovani studenti. Capiremo che poesia, letteratura, arte e maestri a lui cari, sono stati fondamentali per la sua formazione di Uomo e docente. Dopodiché il grande folk-singer americano Eric Andersen si racconterà in un colloquio con Marco Fazzini e Jacksie Saetti. I suoi inizi con Band giovanili, l’amore per il cinema, il suo rapporto con la Beat Generation saranno alcune delle tematiche che ci introdurranno a una America che molto ha influenzato la cultura europea e non solo di quegli anni. Joni Mitchel, Janis Joplin, Bob Dylan sono 22 artisti con cui Andersen ha collaborato nella sua lunga carriera. L’artista Sabrina Notturno conversando con Pierantonio Tanzola ci accompagnerà nel suo spiazzante universo costruito su immagini visionarie e oniriche, realizzate mediante un approfondito studio sul proprio inconscio. Una epifania di eventi capaci di aprirci ad orizzonti indefiniti e mondi paralleli. Seguiranno le poetiche e commoventi lettere inedite di soldati italiani impegnati sul fronte della seconda guerra mondiale. Lontani da casa, il più delle volte a combattere in paesi stranieri, questi ragazzi scrivono alla loro madrina di guerra per confidarsi o ricevere un conforto in momenti estremamente difficili da affrontare. Come di consuetudine ci saranno i ritratti dei protagonisti realizzati, per questo numero, dall’artista Marco Manzella.

 

contenuti della rivista:
Editoriale - Cantare in tempi di barbarie: poesia e resistenza - Marco Fazzini
Introduzione - Andrés David Carrara, Giorgio Macii, Carla Tanzola, Pierantonio Tanzola
Profilo - Sabrina Notturno
Dialogo - Lorenzo Renzi
Inedito Lettere dal fronte - Chiara Soldati e Andrés David Carrara
Confronto - Mingle with the Universe. Riflessioni e confessioni d’un artista / Eric Andersen in conversazione con Marco Fazzini e Jacksie Saetti
Ritratti - Marco Manzella

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Profilo - Sabrina Notturno

Sabrina Notturno (Treviso,1964). Ha frequentato il corso di Emilio Vedova presso l’Accademia di Belle Arti di Venezia. Vive e lavora tra Treviso e Casier. Ha esposto in numerosi spazi indipendenti, gallerie e fiere in Italia e all’estero. È cofondatrice del padiglione di arte contemporanea ParCo Foundation a Casier. Tra le sedi che hanno ospitato il suo lavoro vanno ricordate Magazzini del Sale a Venezia, Karin Mitchel Queensland (Brisbane), Galleria Arte 3 Milano e Trieste, Galleria Juliet Trieste, Magazzini Generali Milano, Galleria Carini Becherini Firenze, Galleria Portanova 12 Bologna. Tra gli spazi pubblici l’Archivio di Stato Centro Carlo Scarpa, Treviso; Teatro Lirico Giuseppe Verdi Trieste. Nel 2018 ha ordinato un’ampia personale al Museo Nazionale Villa Pisani di Stra: in quell’occasione ha realizzato l’installazione site-specific “Ice Memory” presso la Coffee House della Villa. L’opera è ora esposta ai Musei Civici di Padova nella sezione di arti applicate presso Palazzo Zuckermann. Nel 2021 ha partecipato al progetto “l’Erbario in Viaggio” alla Design Week di Milano, al Festival Letteratura di Mantova e al Festival di Filosofia di Modena. Nel 2023 espone al Museo Dino Formaggio a Teolo e al Museo del Paesaggio a Torre di Mosto (Ve).
 

Pierantonio Tanzola: Che dici Sabrina…parliamo un po’ di te? Quale è stato il momento in cui hai compreso che il tuo mondo sarebbe stato quello dell’arte?

Sabrina Notturno: È una bellissima domanda! Penso che i “primi momenti” risalgano ad alcune suggestioni dell’infanzia. Ricordo tra molte, la visione di alcune montagne di zolle di carbone di un colore nero intenso e lucente, mi sembrarono bellissime e ne ebbi un’attrazione fatale! Ancora oggi quando mi trovo a dover affrontare un lavoro, inconsciamente i miei riferimenti sicuri risalgono all’intensità di quella immagine e molte altre a me care, intrise di profumi, luoghi e atmosfere che solo l’averle amate ti dà il diritto di poterle usare. È un imprinting! La propria natura si palesa a piccoli passi, in una prossemica emozionale, in una libertà e originalità fisiologica, è la voglia di portare con sé il lungo respiro di una corsa a pieni polmoni, è il riverbero di una piccola luce interiore che ti fa comprendere la possibilità di poter leggere il mondo da innumerevoli punti di vista. È un lungo viaggio all’interno dei “chakra” dell’esistenza! Oltre a questo, mi piaceva moltissimo disegnare e dipingere, ma questo è un dettaglio! (sorrido).

P.T.: Tutto quindi inizia da suggestioni infantili quando ancora si ha quello stupore che poi nella maggior parte dei casi va via via perdendosi per gli affanni quotidiani. L’artista, superando mille difficoltà, tende a mantenere questa visione, direi di più, questo disorientamento, che in qualche modo, attraverso la sua immaginazione spera di riorganizzare, mettendo nero su bianco le inquietudini, le paure e le ossessioni che lo accompagneranno per l’intera vita. E a proposito di bianchi e neri, mi viene da domandarti per quale motivo usi il monocromo, forse proprio per rievocare quella montagna di carbone di un colore nero intenso e lucente? Questo tipo di approccio con la realtà, ha un significato ben preciso per poter esprimere concetti per te importanti?

S.N.: Trovo che l’espressione della rappresentazione attraverso il monocromo, si avvicini maggiormente alla” supremazia” della sensibilità, all’essenzialità dell’immagine pur nella sua complessità, assumendo, nel mio caso, una luce atmosferica, simile a quella onirica o ad un’immagine dell’inconscio; tutto ciò mi avvicina a quell’idea forte di “purezza di visione”, che si ha appunto in certi momenti dell’infanzia; un’idea di porto sicuro da cui presagire ipotesi di viaggio straordinari, per poi tradurli durante la vita, anche in esperienze a volte limitanti dolorose o come dici tu “disorientanti”, ma è all’interno del disorientamento la propria meta. È un oblio da destrutturare, una fede da riconfermare, un mito da riattraversare, molti segni neri su bianco a ricostruire e ritrovare l’evocazione di quelle montagne nere di carbone lucente.
 

 


 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dialogo - Lorenzo Renzi

Lorenzo Renzi, classe 1939, è una delle figure di maggior spicco della linguistica e della filologia italiane. Docente di filologia romanza all’Università di Padova, è stato presidente della Società di linguistica italiana ed è accademico emerito dell’Accademia della Crusca. Nel 1973, insieme a Tullio De Mauro, è tra i soci fondatori del Gruppo di Intervento e Studio nel Campo dell’Educazione Linguistica (GISCEL), che nel 1975 pubblicherà le Dieci Tesi per l’educazione linguistica democratica. Oltre alla filologia romanza, si è dedicato allo studio della lingua e letteratura romena, alla teoria e storia della retorica e alla lingua e letteratura provenzale. È autore di varie opere in campo linguistico, filologico e letterario. Insieme a Giampaolo Salvi e Anna Cardinaletti, Lorenzo Renzi ha curato la pubblicazione della Grande Grammatica Italiana di Consultazione, opera di riferimento per lo studio e la descrizione della sintassi dell’italiano, che ha raccolto il contributo di numerosi linguisti. Questo lavoro ha ispirato progetti analoghi anche in altre lingue. Si è interessato allo studio del cambiamento linguistico, dedicandosi alla descrizione degli errori grammaticali come esempi di interessanti mutamenti in atto nella lingua.
Lorenzo Renzi è sposato con Laura Vanelli, linguista docente di fonetica e fonologia presso l’ateneo patavino e autrice di grammatiche e testi scientifici di studio della lingua e della linguistica italiana.
 

Pierantonio Tanzola: Lorenzo, qualche giorno fa mi raccontavi della tua prima vera passione che fu il disegno. Come nasce poi la svolta verso le lettere e la linguistica?

Lorenzo Renzi: Caro Pierantonio, ti ringrazio delle parole di elogio, che non so quanto merito veramente. Ma facciamo finta di sì, e che meriti che io scriva qui per te e per i lettori de “L’argine” qualcosa della mia vita passata, cominciando a rispondere alla tua domanda finale.
La passione per il disegno è stata per me la continuazione diretta del disegnare che fanno i bambini nella loro infanzia, e che poi tutti, con pochissime eccezioni, abbandonano, hai notato? Io invece ho continuato, ma soprattutto nella direzione speciale del copiare delle opere d’arte, alle volte in dimensioni ridottissime, miniaturistiche. Contemporaneamente infatti, sempre da bambino, ero preso da una grande passione per la storia dell’arte, coltivata sui grandi volumi azzurri illustrati del Touring, che mostravano in fotografia le meraviglie artistiche e paesaggistiche d’Italia regione per regione e nelle città più importanti. Abitavo all’epoca con la mia famiglia a Vicenza, e in casa dei miei genitori c’era un buon numero di libri. Ho cominciato allora a scrivere anch’io una mia storia dell’arte, avevo tredici anni, o giù di lì, in inchiostro di china partendo da brevi cenni sull’antichità. Arrivato al Rinascimento, che era la mia età preferita, mi sono fermato a metà, sopraffatto dalla materia. Le illustrazioni, ora in bianco e nero, ora colorate all’acquerello, erano della grandezza di un francobollo. C’era per esempio, a colori, la Crocefissione di Masaccio in Santa Croce a Firenze. Accondiscendendo a questa mia passione, i miei genitori mi spedirono da loro amici in visita a Firenze e a Roma quando ero ancora bambino. Mi mandarono anche a un corso di pittura della professoressa Mina Anselmi, una pittrice di arte religiosa (i suoi dipinti però non mi piacevano molto). Teneva un corso preparatorio al Liceo Artistico che comprendeva tratteggio, carboncino e sanguigna, natura morta, ritratto. Venni esentato, con mio sollievo, dal corso di nudo, prematuro per la mia età. Ero sempre un bambino, andavo alle scuole medie. Passato al Liceo, abbandonata la scuola di pittura, mi appassionai di arte moderna. In una galleria della città, il Calibano, che ebbe una breve esistenza, venne esposta un’opera di Picasso. Andai a guardarla e riguardarla, fu un’esperienza profonda per me. Intanto al Liceo Classico (non avevo mai pensato veramente di andare all’Artistico) un compagno mi prestò alcune plaquette di poeti moderni appartenuti al papà, purtroppo nel frattempo morto. Il mio compagno, Felice Lioy, era il nipote del naturalista Paolo Lioy, a cui era intitolato uno dei Licei cittadini. C’erano Govoni, Palazzeschi, forse Marino Moretti e altri poeti primonovecenteschi. Mi piaceva anche la poesia moderna, anzi quasi contemporanea. Conobbi presto Fernando Bandini, poeta e uomo politico, lui sì contemporaneo, e amabile, gentile. Diventammo amici. Ecco le premesse per il mio passaggio dalla pittura alla letteratura, mai del tutto definitivo però. Comunque, era una svolta. Avevo circa vent’anni.

P.T.: Eh… la poesia che, molto probabilmente, è il linguaggio più alto che ha l’uomo per esprimere la sua essenza. Per Heidegger questa rende possibile il disvelamento dell’essere, poiché è un linguaggio autentico. Per il grande filosofo tedesco i pensatori e i poeti sono i guardiani della dimora dell’essere. Con la poesia non è l’uomo che si pronuncia, ma il linguaggio stesso e per mezzo di questo si esprime l’essere. Mi chiedo e ti chiedo, quindi, se in quest’epoca, patria della velocità, del qui e ora, del mordi e fuggi, può ancora aver senso esprimersi con un linguaggio poetico e se la poesia può, in qualche modo, incidere nella società contemporanea.

L.R.: Io non credo che sia bene prendere come paradigmatica l’idea di Heidegger sulla poesia. Heidegger si riferisce certamente a un tipo di poesia come manifestazione, rivelazione, dell’Essere, come quella di Hölderlin. Avrebbe potuto riconoscerla anche in Paul Celan che conobbe personalmente, ma, come si sa, mancò l’occasione. Non credo che ne abbia cercati esempi in culture del passato, o lontane dall’Europa, dove se ne possono certamente trovare. Ma ci sono molti altri generi di poesia, alcuni dei quali si dimenticano oggi troppo facilmente, come quella epica, da Omero all’Ariosto. La forma epica, seppure diventata breve e frammentaria, era ancora viva nell’Ottocento, e un suo esempio è nella Légende des siècles di Victor Hugo. Oggi per noi la poesia per eccellenza è quella lirica, che procede per lampi (Illuminations). Abbandoniamo volentieri Foscolo e perfino Leopardi per Rimbaud. Ma Montale, per esempio, è solo in parte un poeta orfico, è anche ironico e colloquiale. Io non metterei limiti alla definizione di poesia, non la rinchiuderei in un cerchio ristretto. Come l’erba o certi fiori crescono sui prati, ma anche lungo le autostrade e nelle fessure del cemento, così la poesia spunta in terreni diversi. Sta a noi riconoscerla anche se è in forme nuove. La poesia non è certo morta oggi, anche se il nostro tempo è minacciato dalla velocità e dalla superficialità e stupidità umana, come ricordi tu, e, si potrebbe aggiungere, anche dai misfatti e dalle guerre, e in definitiva dalla cattiveria degli uomini. Ma questa c’è sempre stata in tutti i tempi.
 

 


 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Inedito - Lettere dal fronte - Chiara Soldati e Andrés David Carrara

 

Nel 1941 la madre della giovane Elena M. mandò una fotografia di sua figlia alla redazione del settimanale “Tempo”, diretto all’epoca da Alberto Mondadori, per permetterle di partecipare alla terza edizione del concorso di bellezza precorritore di Miss Italia “Cinquemila lire, un brillante ed un corredo per un sorriso”. Elena si qualificò quattordicesima e la sua immagine venne pubblicata sul numero 142 della rivista assieme al suo indirizzo. Da quel momento iniziò a ricevere centinaia di lettere di soldati impegnati sul fronte di guerra che le chiedevano di intrattenere un rapporto epistolare per ricevere conforto nei momenti di solitudine.
Per sostenere chi non aveva una fidanzata o una moglie con cui confidarsi a distanza, le istituzioni e l’esercito favorirono la ripresa della figura della “madrina di guerra”, una prassi nata durante la Grande Guerra che prevedeva relazioni epistolari tra soldati e ragazze nubili che si impegnavano in un’opera di assistenza morale e solidarietà patriottica. Questa particolare forma di volontariato assumeva le sembianze di un rapporto al tempo stesso materno, amichevole e amoroso che rafforzava il tradizionale ruolo femminile dell’epoca e incoraggiava i giovani militari spesso sconfortati e distanti da casa.
Nelle lettere indirizzate a Elena, scritte da ogni luogo in cui l’esercito italiano era impegnato, i militari raccontano nostalgia e privazioni, dettagli quotidiani delle loro giornate, ideali marziali o profonda apatia. Ciò che accomuna le loro missive è il bisogno di credere che qualcuno li ascolti e possa farsi carico della loro solitudine, consolare la tristezza e rincuorarli della grande paura che probabilmente non sono autorizzati ad esprimere nelle lettere indirizzate alle famiglie. Immaginare una donna cordiale e materna, sognare un volto caro o un sorriso affettuoso, diventa una vera e propria strategia di sopravvivenza emotiva che fa emergere quanto di più umano questi ragazzi - impegnati a vivere il fronte di una guerra e non la propria giovinezza - hanno potuto, con la parola scritta, esprimere.

 

26-2-42 posta militare

Gentilissima signorina Elena vi scrivo queste poche righe per farvi sapere che o letto il vostro nome sul il Tempo e ci stava scritto il vostro premio del concorso del sorriso. Vi prego di mandarmi una vostra fotografia così mi posso ricordare in questa terra della Croazia la mia bella città di Roma così ogni volta che guardo la vostra fotografia mi ricordo del mio paese vi prego di mandarla presto e mi dovete scusare se vi scrivo con questa lettera ma dovete sapere che dove mi trovo non potete sapere come si sta male sono in una montagna e ci sono quattro case come un villaggio (?) non ci sono ne francobolli ne carta ne aqua si beve aqua piovana ma speriamo che passa presto questa vita per ritornare tutti alle nostre case finisco di scrivere con i saluti a voi e ai vostri genitori.

Vi scrive l’Artig Catarelli C.

Datemi la vostra risposta
Vinceremo

 

Gentile Signorina,

sfogliando una rivista Tempo mi è rimasta impressa la vostra foto, la semplicità e la bontà del vostro volto mi fanno ricordare una persona che mi fu tanto cara, ora purtroppo è morta.
Sarei grato se foste così gentile dall’inviarmi una vostra foto, essa mi sarebbe di grande aiuto ne spacciare la tristezza che da tempo è entrata con tanta prepotenza in me. Parlare di tristezza alla mia età è ben triste cosa, eppure qui si ha la sensazione come se una gelida mano ci stringa il cuore
la monotonia di questi giorni tutti uguali, il cinereo cielo, la neve che cade continua il freddo a 35 gradi, qui in zona di guerra, credetemi non è la bella neve che ci hanno insegnato da bimbi, quei bei fiocchi che cadono candidi (?) silenziosi si posano sul davanzale delle finestre.
All’ora era un’allegria; qui invece imparo ad odiarla, ovunque lo sguardo giro il candido mantello abbaglia i miei occhi stanchi.
Vorrei con un passo varcare questa immensità bianca, e nel vano tentativo i nervi si rilassano e la tristezza più forte m’assale. Ora che la stagione diviene più gaia, e gli animi seguono queste, pure il mio lo dovrebbe, ma ho l’amara constatazione che entro di me invece di sorgere Primavera, sorga l’Inverno con le sue tristezze e le sue pene, e a completare questo grigiore, che c’è in me, sono pure i luoghi, giro lo sguardo e vedo la desolazione che mi circonda. Vedo delle persone che parlano una lingua diversa e che hanno degli usi e dei costumi differenti. Scusatemi se ho divagato un po’ troppo
Con la speranza che quanto vi ho chiesto possa ottenerlo, vogliate gradire i miei migliori ringraziamenti.

Saluti

Gianni R.


 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Confronto - Mingle with the Universe. Riflessioni e confessioni d’un artista / Eric Andersen in conversazione con Marco Fazzini e Jacksie Saetti
 

Eric Andersen è tra i massimi cantautori americani del Novecento ed esponente, assieme a Jackson Browne, Joni Mitchell e James Taylor, della cosiddetta “Me Generation”. Ha condiviso le ansie e le lotte dei suoi amici della Beat Generation, le platee di grandi tournée e festival con Bob Dylan, Grateful Dead, Buddy Guy, Janis Joplin e The Band, ma anche l’intimità dei piccoli club del Village di New York, e di altre capitali americane ed europee. Tra i suoi capolavori: Blue River (1972); Ghosts Upon the Road (1989); Beat Avenue (2003), e Mingle with the Universe (2017). Sulla sua vita e la sua opera, il regista Paul Lamont, nel 2020, ha completato un film dal titolo: The Songpoet.

Ci dici come e quando è iniziata la tua carriera?
Formai i miei primi gruppi quando ero alle scuole secondarie. Uno di questi si chiamava The Eric Andersen Singers. Ma forse la storia era già iniziata prima d’allora. Nel 1956, quando avevo tredici anni, cominciai a imparare canzoni calypso con l’ukulele. Allora, mia mamma mi comprò una chitarra con corde in nylon, e così me ne stavo di fronte allo specchio fingendo di essere Elvis, e imparavo canzoni da dischi a 45 giri, nello stile rock-a-billy e calypso. A quel tempo, sgattaiolai di casa per vedere Elvis nel suo vestito dorato al Buffalo Memorial Auditorium. Gli Everly Brothers e Buddy Holly vennero in visita nella mia scuola. Un anno dopo, i miei genitori mi portarono a sentire Miles Davis e John Coltrane al Kleinhans Music Hall quando avevo quattordici anni. Queste esperienze piantarono un seme rock e jazz nella mia testa. Anni dopo, quando Brian Epstein fu il mio manager, suonai io stesso al Kleinhans Music Hall. Alle scuole superiori ascoltavo la musica di Harry Belafonte, Theodore Bikel, Buddy Holly, Little Richard, Elvis, The Weavers e The Kingston Trio. Erano in gran parte canzoni da tre accordi. Gli Everly Brothers mi hanno donato la passione per l’armonia (anni più tardi, sperimentammo molto con le armonie con il mio trio Danko-Fjeld-Andersen).
Quando stavo al college di Hobart, nel distretto di New York Finger Lakes, avevamo un gruppo folk. Eravamo troppo giovani per i bar, così suonavamo per i raduni di beneficienza; avevamo incluso una donna per le armonie, e un amico che suonava il banjo. Tra il primo e il secondo anno, d’estate, me ne andai a Boston e a Cape Cod assieme al suonatore di banjo Joe Hutchinson perché sembrava ci fosse una bella comunità folk in quel posto. Ci facevamo chiamare The Cradlers, e come duo riuscimmo a intervenire al Cape Cod Folksong Festival nell’estate del 1963. Facevamo principalmente delle cover (The Weavers, Woody Guthrie, Bill Monroe, The Kingston Trio). Sui palchi del festival, aprimmo per The Brothers Four, The Kingston Trio, Bonnie Dobson, Ramblin’ Jack Elliott, e Peter Paul & Mary, tra gli altri. Cominciavo a imparare i trucchi dell’intrattenimento e tentavo già di scrivere qualche canzone ai tempi dell’Hobart College. Dopo quell’esperienza al festival, la mia vita cominciò a cambiare. In precedenza, alle superiori, avevo lavorato durante le estati al Roswell Park Comprehensive Cancer Center, un centro di ricerca di Buffalo. Ma cominciai a voltare le spalle a quei sogni legati al campo della ricerca pre-medica, iniziando a disertare le lezioni, a saltare sui treni merci per il brivido di farlo. Vidi i miei voti scendere, e mi rifugiai nella musica e nella chitarra. Tutto precipitò, a partire da una serata selvaggia di maggio attorno al Lake Seneca su una moto Triumph 500 (con un altro tipo sulla sua), per finire a guidare sul prato e nel giardino del Rettore. Fui chiamato a rapporto, ed espulso (l’estrema ironia fu quando, sessant’anni più tardi, il college mi assegnò un dottorato honoris causa in Scienze Umanistiche). Ma quell’estate del 1963 avevo già fatto dei piani per andarmene a San Francisco, dove i Beat scrivevano e recitavano poesia. Avevo deciso che la musica e la scrittura di canzoni sarebbe stata la mia vocazione, più che la ricerca sul cancro, nel bene e nel male.
Gettato il destino alle ortiche, ero tutt’occhi e tutt’orecchi mentre la cautela viaggiava nel vento. Nel settembre del 1963 feci l’autostop e saltai sui treni verso l’ovest, con un po’ di vestiti e la sola chitarra. A North Beach, a San Francisco, feci un’audizione e mi guadagnai un paio di serate a settimana al bar dei Beat dove Kerouac, Ginsberg e gli altri si riunivano per bere: si trattava del Coffee Gallery. A serate alterne ci suonavano Dino Valente e Janis Joplin. Dino eseguiva alcune canzoni pacifiste con legato alla coscia un coltello da 12 pollici, col manico in osso, mentre Janis parcheggiava la sua Vespa sul marciapiedi con la chitarra in spalla. Una sera andai a Berkeley per un concerto e sentii per la prima volta un cantante blues in carne e ossa. Si trattava di uno dei più grandi viventi: Lightnin’ Hopkins. Quella stessa sera incontrai nell’atrio del teatro quella che sarebbe diventata mia moglie, Debbie Green. Lei stava promuovendo il concerto e il caso volle che possedesse un locale chiamato Cabale. Una sera, Tom Paxton aveva suonato al suo club, così lei lo portò a North Beach dopo lo show, per fargli assistere alla mia esibizione al Coffee Gallery. Gli piacquero le mie canzoni, e così Tom invitò Debbie e me nel suo appartamento di New York, nel caso ci fossimo capitati quando lui e sua moglie sarebbero stati fuori, in Inghilterra. Qualche mese dopo, io e Debbie andammo a New York, ci fermammo a casa sua, e io iniziai ad ascoltare i musicisti del Village. In quei mesi di gironzolamenti, ho ascoltato e incontrato alcuni tra i grandi, gente della statura di Phil Ochs, Tim Hardin, Dave Van Ronk, Pete Seeger, Fred Neil, Bob Dylan, David Blue, Patrick Sky, Buffy Sainte-Marie, Tim Buckley, Jimi Hendrix e tutti gli altri di quell’ambiente. Sarebbero diventati gli amici d’un circolo ristretto. E mentre aspettavo che uscisse il mio primo disco per la Vanguard, mi aggiravo per le strade del Village e assorbivo tutta la musica che potevo. Quei tre o quattro isolati erano la casa di molti musicisti blues e jazz, tra i più grandi, e suonavano in vari club: Gaslight Café, The Village Vanguard, Gerde’s Folk City, e il Village Gate. Si trattava di un mobile circo musicale sotto un solo tendone! In una sera sola queste quattro o cinque strade negli anni Sessanta ospitavano la miglior musica che si potesse produrre negli Stati Uniti, o forse nel mondo! Il Greenwich Village diventò la mia scuola. Fu là che ricevetti la mia educazione musicale. Non c’erano altri posti in cui, in un miglio quadrato, si potessero ascoltare, per 365 giorni l’anno, nomi come Lightnin’ Hopkins, Skip James, Muddy Waters, Miles Davis, Charles Mingus, il mentore di Robert Johnson Son House, Mance Lipscomb, John Coltrane, Bill Evans, Reverend Gary Davis, Jr., Clarence Ashley, (Booker T. Washington) Bukka White. I più grandi dei grandi! Per non menzionare la vivacità dei locali: scrittori e cantanti, o gruppi come Ramblin’ Jack Elliott, Fred Neil, Tim Hardin, John Sebastian e i Lovin’ Spoonful, l’organista jazz Jimmy Smith, il Modern Jazz Quartet, e Bob Dylan. Stavano tutti là. Da loro imparai come il ritmo, il tempo e lo spazio potessero trovare casa nella musica. Ma come si sarebbero adattati all’interno della mia musica? Ci vollero anni prima che queste lezioni si depositassero. La dinamica, la sincronizzazione, e il fraseggio. Già nel 1964 ero diventato amico dei proprietari di vari club, così riuscivo ad entrare gratis alle performance di quei giganti. Era quello che facevo quando non mi gettavo nella mischia del Lower East Side, o non stavo con gli amici di Woody Guthrie dall’Oklahoma, Gordon Friesen and Sis Cunningham (Friesen), su alla 96ma Strada. Dirigevano e pubblicavano la rivista per cantautori New York Broadside. Nel frattempo, ogni notte vagavo per le strade e mi sedevo sulle ginocchia dei maestri a godermi musica gratis al Village. Non passò molto che pubblicarono il primo disco di mie canzoni, e suonavo in quegli stessi club. Il movimento dei cantanti-cantautori fu il grande fenomeno che seguì la schiera dei Beat, con opere del tipo di Urlo, Pasto nudo, Sulla strada. Divenni rapidamente parte di un’ampia esplosione vulcanica che avvenne tra i Beat e gli Hippy. Quella fatidica scheggia temporale si verificò dopo la crudezza di Elvis e prima dell’astuta invasione britannica dei Beatles. Ma questa esplosione non era solamente musicale; era un fenomeno rilasciato a tempo, ben pensato come una narrativa fatta di parole congegnate per stare assieme in maniere nuove e significative e poter creare un ‘nuovo tipo di canzone’. I fatti legati ai nuovi cantanti-cantautori coincisero con l’invenzione dei dischi long-playing a 33 giri. I dischi non dovevano più limitarsi ai due minuti e quarantacinque secondi, come per le canzoni del Brill Building, e adattarsi allo stereotipo della canzone pop per le radio. Come per un assolo di John Coltrane, una canzone poteva anche durare dieci minuti, o più. La gente aveva la possibilità di ascoltare lunghe opere musicali in soggiorno, o attraverso le nuove stazioni radiofoniche FM che stavano spuntando da ogni parte nel mondo.

 


 


Ritratti - Marco Manzella
 

 

Marco Manzella è nato a Livorno nel 1962, pittore e disegnatore.
Dopo gli studi d’arte e restauro ha iniziato l’attività espositiva nel 1985, sviluppando costantemente il suo interesse per alcuni episodi della pittura toscana del ‘400 e ‘500 e per l’arte figurativa del ‘900.
Nel 1997 inizia ad avvicinarsi alla pittura figurativa inglese e successivamente a quella americana, soggiornando frequentemente negli Stati Uniti. Da sempre attratto dai temi legati all’acqua, nella sua pittura figurativa è dedicata a questo elemento una posizione preminente.
Vive e lavora tra Brescia e la Toscana.

 

Ritratto di Marco Fazzini


 


 



 

Per i testi:
©Editoriale - Marco Fazzini
©Profilo - Sabrina Notturno, Pierantonio Tanzola
©Dialogo - Lorenzo Renzi, Pierantonio Tanzola
©Inedito - Chiara Soldati, Andrés David Carrara
©Confronto - Eric Andersen, Marco Fazzini e Jacksie Saetti

Per le immagini:
©Pierantonio Tanzola
©Marco Manzella
©Sabrina Notturno, Giovanni Durigon
©Chiara Soldati
©Eric Andersen
©Marco Fazzini

ISBN 979-12-81023-15-4
Il quarto numero della rivista L'ARGINE si può acquistare al prezzo di 15,00 euro effettuando un bonifico intestato a Andres David Carrara IBAN: IT35Z0344216000000042755818. La spedizione è gratuita con "piego di libri". Per velocizzare la spedizione inviate per cortesia la copia del bonifico a info@mymonkeyedizioni.com specificando l’indirizzo di spedizione e i propri dati fiscali (nome, indirizzo di residenza e partita iva o codice fiscale) per permetterci di compilare la fattura della vendita.

 

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